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Violenza
Mi muovo secondo la mia violenza scriveva Alda Merini, dando corpo a un sentire non comune e tuttavia così diffuso, la cui verità è così vera da turbare il pensiero dei benpensanti.

La poetessa milanese ha convissuto tanti anni con la malattia mentale, tanto da avere una lunga frequentazione con i moti dell’animo più arcaici e più pervasivi che turbavano la sua mente; quindi per lei l‘evidenza era univoca: la vita è impregnata di violenza. E forse a noi suoi lettori voleva indicare proprio questo: non fatevi l’illusione di potervi sbarazzare con facilità della violenza.
Già, perché quella che noi chiamiamo violenza non è altro che una manifestazione specifica dell’energia che ci sta sotto, una manifestazione che si configura in atti e in forme per le quali la ragione umana, quando va bene si accontenta di una descrizione causale o osservativa (aggressione, stupro, prevaricazione ecc.), e quando va male, rimane sbigottita per l’insensatezza o la sproporzione degli effetti rispetto alle cause. Le intense emozioni da essa suscitate spaziano dallo stupore quasi catatonico all’agitazione scomposta, fino a generare in qualche caso uno stato confusionale della mente.
Eppure, dovrebbe essere facile vedere che l’altra manifestazione dell’energia è la vita.
L’energia è l’essenza della vita, anzi, la vita è energia, in potenza o in atto: senza energia disponibile non c’è vita.
La straordinaria varietà delle forme di vita sulla terra e la vastità dell’universo ci costringono a fantasticare che la potenza vitale possa essersi manifestata anche in altri mondi lontani; rimanendo ad ogni buon conto “coi piedi per terra”, vediamo come ogni essere vivente da noi conosciuto disponga di un’energia vitale alimentata senza posa, e orientata per indirizzare la sua dotazione biologica, verso i compiti evolutivi nel ciclo di vita.
Volendo abbozzare dei pensieri senza pretese particolari sulla violenza, la prima riflessione indugia appunto su quello che sembra forse il compito universale di ogni essere vivente, e più nello specifico, del genere umano: gestire l’energia vitale indirizzandola verso mete costruttive, imparando a controllare l'aggressività e la violenza che spesso queste mete sollecitano, nella ricerca di percorsi alternativi alla distruttività.
Che contributo può dare la psicologia alla comprensione e alla realizzazione di questo ideale universale? Forse più di uno, specie se ci fermiamo a guardare le acquisizioni della psicologia dell’infanzia e in particolare alcune riflessioni della psicoanalisi infantile.
Secondo queste discipline il compito psicologico cui ogni neonato deve dare una risposta nella sua crescita è proprio quello del “che fare” delle sue energie vitali. Egli è di fatto impegnato in un compito straordinario: quello di farsi un’idea di sé e del mondo, di conoscersi e riconoscere le sue risorse nella esplorazione del mondo esterno. Si tratta di un processo di apprendimento a feed-back in continua evoluzione che lo porterà a riconoscere e a gestire la propria energia come proveniente dal proprio corpo, un corpo in evoluzione appunto, che domani sarà un corpo adulto in relazione col mondo, impegnato nel compito di estendere la sua signoria su di esso.
Naturalmente, questo programma evolutivo può realizzarsi solo in un ambiente di sostegno sufficientemente adeguato, dove le cure materne sopperiscono all’immaturità del neonato. Queste cure materne hanno la funzione di sostenerlo nella costruzione di legami di attaccamento, indispensabili per la sua naturale sperimentazione del sé e del mondo. E’ facile comprendere quanto sia di vitale importanza per il bambino imparare ad avere fiducia in una madre-ambiente che verrà incontro ai suoi bisogni con ritmi e modalità relativamente prevedibili.
Un apprendimento disseminato di ostacoli però, perchè ogni investimento libidico positivo comporta dei rischi quando si è dipendenti come il cucciolo umano.
Ecco, di questo parliamo, dello stato di bisogno in cui si trova il neonato, dipendente da un ambiente di cui non conosce i contorni e nemmeno le funzioni, ma in qualche modo riconosciuto come in grado di saturare i suoi bisogni vitali di fame, sete, presenza, contenimento e accudimento. I bisogni del bambino devono essere riconoscibili e riconosciuti dalla madre-ambiente perché egli possa procedere nell’attaccamento e nella crescita. Tra lui e la madre, quando tutto va bene, si costituisce un vocabolario di segnali e un linguaggio speciale che permette alla coppia di crescere nella relazione, nel legame di fiducia e nella reciproca conoscenza. Quando va male, perché la risposta ai segnali del bambino è errata a seguito di una mancata comprensione da parte della mamma-ambiente, o addirittura non arriva, il neonato è esposto al sentimento della sua impotenza, con vissuti catastrofici relativi alla rottura dei legami di attaccamento e al terrore abbandonico. La perdita del senso di sé che ne consegue attiva una risposta di marasma comportamentale, a volte corredato da una forma di rabbia libera e senza alcun controllo come estremo tentativo di richiamare su di sé l’attenzione dell’ambiente.
Questo drammatico scenario potrebbe non essere di facile comprensione, ma ponendoci nei panni del bambino, in qualche modo possiamo afferrarne l'essenza.
Il mondo psichico del bambino, ogni madre lo sa, è fatto di bisogni ma anche di desideri, e non sono proprio la stessa cosa. Spesso non sono distinguibili, nè da lui né da chi si occupa di lui. Di certo il suo mondo è a tinte forti: o è in uno stato di benessere o sta male in senso cosmico; o nutre fiducia nell’ambiente di sostegno, o è esposto alle angosce abbandoniche; o sta per così dire in paradiso, o sperimenta il terrore dell’inferno: non può ancora distinguere le sfumature e le differenze in una continuità del senso di sè.
In questo senso, nella psiche del bambino, vige una sorta di consustanzialità fra quello che noi chiameremmo diritto (per esempio quello di essere nutrito, accudito ecc.) e il desiderio. Nella sua mente, il desiderio si trasforma immediatamente nel vissuto di un diritto senza se e senza ma: un tratto della megalomania onnipotente dei bambini, che non tollera o mal sopporta la delusione e la dilazione del soddisfacimento del desiderio.
Nel programma evolutivo di ogni bambino, è prevista però prima o poi la frustrazione, con la sofferenza che essa comporta (come si sa, non esistono le mamme perfette e, se esistessero, sarebbero probabilmente pericolose per loro bambino).
Non è una sofferenza inutile, senza senso; anzi è l’esperienza della realtà che irrompe nel mondo fantasmatico del bambino e lo costringe a distinguere l’immaginazione dalla realtà stessa, a farsi un’idea della realtà, anzi, a sviluppare un suo interesse per la realtà. Imparare a fare i conti con la realtà è una capacità importante e la sua costruzione è un passaggio decisivo per la crescita.
Per comunicare con l’ambiente il bambino ha a disposizione pochi strumenti (il pianto, il lamento, il grido, l’agitazione, i movimenti scomposti) che usa ad oltranza fino a ottenere una risposta che possa aiutarlo a recuperare lo stato di quiete e di benessere. Quando la risposta non arriva, la frustrazione fa sentire i suoi morsi e se supera la sua capacità di tollerare l’attesa, questa attività motoria viene invasa da tutta una serie di fantasie aggressive nei confronti della mamma-ambiente assente o inadeguata.
L’aggressività e la distruttività nei confronti dell’oggetto relazionale primario deludente e frustrante non è priva di conseguenze, perché è accompagnata dall’angoscia di una ritorsione altrettanto distruttiva, che sommergerà il successivo processo di riavvicinamento con la madre.
Sappiamo bene quanto potere ha sulla madre il pianto del suo bambino e quali effetti ha nella sua mente il marasma dell’inconsolabilità prolungata.
Fortunatamente sono casi rari: di solito una madre, come si dice, “sufficientemente buona" sarà in grado di rielaborare col figlio questi fantasmi, bonificando la mente del bambino dai sensi di colpa per averla attaccata e ferita: la sua presenza sorridente e calma dimostrerà al figlio di essere sopravvissuta indenne ai suoi attacchi.
A volte però il "programma evolutivo" di riconoscimento della realtà rimane incompiuto o distorto. L’onnipotenza del desiderio può fare un'improvvisa ricomparsa, così come la sofferenza angosciosa della frustrazione può ripresentarsi in tutta la sua virulenza mentre l’angoscia abbandonica allaga la mente. Quando magari il corpo è cresciuto e dispone di energie proporzionate alla maturità del corpo, così che può mettere in atto quello che la realizzazione onnipotente del desiderio pretende.
Ecco: l’occhio attento può riconoscere in controluce nella violenza apparentemente senza senso di fatti della nostra quotidianità il riemergere di un funzionamento psicologico immaturo riverberato dal desiderio infantile di avere a propria completa disposizione un oggetto relazionale completamente oblativo: il desiderio di un piccolo tiranno rivestito della pretesa onnipotente di un dominio assoluto sull’oggetto relazionale.
Solo che qui il tiranno non è più un bambino a cui si perdona tutto: nel frattempo è cresciuto…... e, gli esiti dei suoi comportamenti non sono esenti da responsabilità.
Questo può succedere perché l'oggetto relazionale non viene riconosciuto come persona intera ma come protesi della megalomania infantile.
Crescere comporta il riconoscimento dell'oggetto relazionale intero e la necessità di coltivare l'interesse per l’altra persona vista come fonte di scambio e non come oggetto a disposizione.
Dott. Franco Ferri
Psicologo Psicoterapeuta – PSIBA Milano
franco.ferri49@yahoo.it
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